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Dove và la nostra società?

18/08/2024 | Intervista, Società

di Alessandro Claudio Giordano

In questi ultimi anni, la nostra società ha cambiato volto. Ha prodotto un nuovo linguaggio, nuovi metodi relazionali creando una nuova chiave interpretativa della quotidianità e tutto ciò che pareva essere un presupposto importante per una nuova indipendenza personale si è trasformato in un sistema che spesso su larga scala uniforma modi di pensare, sensazioni di ciascuno. Ho affrontato con il prof. Amedeo Cottino, già Ordinario di Sociologia del Diritto alla Facoltà di Scienze Politiche di Torino e professore al Dipartimento di Sociologia dell’Università di Umea, i temi che ci accompagnano oggi la nostra società, cercando di farne un quadro il più preciso possibile.

           Amedeo Cottino

D. – Leggendo le cronache dei quotidiani non si direbbe che la nostra società sia davvero in salute: un riflesso dei titoli di giornale o c’è un fondamento di verità?

R. – Lo scarto tra l’immagine ufficiale del nostro Paese così come la maggioranza dei media propone al lettore e la realtà è cresciuto in maniera esponenziale nell’ultimo decennio. Una realtà caratterizzata da un numero crescente di poveri assoluti (secondo l’Istat almeno 6 milioni), di coloro cioè a cui viene negato l’esercizio di diritti fondamentali come i diritti alla salute al cibo, all’abitazione, al lavoro. Al contempo è cresciuto il numero di miliardari. Viviamo dunque in una società dove le disuguaglianze continuano a crescere. Per capirne le cause dobbiamo ricordarci che la pandemia ha rappresentato il punto terminale di una lotta, la lotta di classe, che ha visto uscire vincenti i potenti. Eppure di questa sconfitta pochi se ne sono accorti. Come mai? Il perché celo spiega il sottotitolo del libro, Dominio di Marco D’Eramo: La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi. Fermiamoci sulle due parole: ‘guerra’ e ‘invisibile’. ‘Guerra’, ma di una guerra condotta in larga misura senza l’impiego delle armi. ‘Invisibile’, in quanto non sono state, in primo luogo, le armi a farla uscire vincente bensì l’affermarsi di una precisa rappresentazione del mondo. C’è stato un capillare lavoro che, poco a poco, ha indotto la maggioranza degli umani ad accettare come vere alcune menzogne spacciate come fatti, come dati empiricamente confermati. Così, ad esempio, ci hanno convinti che il mercato costituisce un fenomeno naturale che possiede il talento di sapersi autoregolare; convinzione di fatto smentita dalle ricorrenti crisi. Nel 2005 e nel 2007 le economie dei singoli paesi occidentali infatti non si sarebbero salvate dal tracollo senza gli interventi pubblici smentendo tra l’altro il luogo comune secondo cui lo Stato svolge ormai nelle società contemporanee un ruolo marginale. Come è parimenti falsa l’idea che non esistano alternative all’attuale sistema economico e che, pertanto, il capitalismo finanziario globale costituisca l’unico futuro pensabile. Ma forse è più appropriato parlare di miti più che di idee, e cioè di rappresentazioni che, da transitorie, contingenti ad una determinata situazione, diventano immutabili, eterne. Basti pensare al mito dei vantaggi che la società ricava dalla riduzione delle tasse! Tanto meno tasse pagheranno i ricchi, tanto maggiori saranno i benefici che i poveri ricaveranno; come se, dalla maggior ricchezza dei primi, discendessero. quasi automaticamente, come gocce da un rubinetto, una serie di vantaggi per gli ultimi. Uno sguardo anche frettoloso alle economie mondiali rivela senza ombra di dubbio che i Paesi più poveri sono quelli dove è più bassa la pressione fiscale. Ora, questa invisibilità non assolve i media dal loro dovere, dal loro compito primo di informare. Di raccontare i fatti. Né tanto meno i cittadini dall’esercitare il diritto/dovere di protestare nella pubblica arena. Per quanto riguarda i primi, è purtroppo consolidata tradizione – se mi si consente usare questo termine in un’accezione impropria – l’asservimento al Potere, vale a dire ai gruppi editoriali forti che fanno capo un ultima istanza al grande capitale. Una significativa spia di questo asservimento è il quasi assoluto silenzio sulla criminalità della classe imprenditoriale, quel tipo di criminalità che spesso in combutta con la criminalità organizzata, crea i maggiori danni economici al nostro Paese. Per ciò che concerne noi cittadini, regna un diffuso silenzio alimentato da un clima sociale contraddistinto da un misto di paura, indifferenza e cecità nei confronti del mondo che ci circonda. L’impressionante velocità dello sviluppo tecnologico ci impedisce non soltanto di comprendere i procedimenti in cui noi siamo coinvolti, di capire cioè quale è l’esito ultimo delle nostre azioni e delle nostre scelte. Cosa forse ancor più drammatica, siamo preclusi dal prendere coscienza del fatto che siamo tenuti all’oscuro di quegli esiti. Siamo resi ciechi ma veniamo invece persuasi che vediamo, che siamo informati. Il prepotente affermarsi dell’intelligenza artificiale costituisce un serio segnale d’allarme.

D. – I socials stanno cambiando e condizionando il nostro quotidiano, il nostro linguaggio e le nostre abitudini. Parrebbe quasi che la nostra realtà si stia piegando ad un nuovo sistema. E’ solo una impressione oppure abbiamo le capacità per renderci autonomi?

R. – È in corso una profonda trasformazione della cultura tradizionale, fondata in un passato ancora relativamente recente sull’interazione sociale vale a dire sulla comunicazione faccia-faccia, sul contatto diretto tra le persone. Un rapporto di dipendenza reciproca che ha lasciato progressivamente spazio ad una falsa indipendenza. Ché, sulla nostra capacità di essere autonomi rispetto ai social, soprattutto sulla scorta di quanto dicevo poc’anzi, sorgono forti dubbi. A cominciare dall’immagine di un’intera popolazione che ovunque, di mezzi pubblici, alla strada, dai negozi ai luoghi di ristoro e di tempo libero è concentrata su un cellulare o su qualche sua più aggiornata variante. Un’immagine che illustrare più una situazione di dipendenza che una di libertà. È un tratto caratteristico della nostra società (la società liquida di Zigmunt Bauman), cioè di un cosmo popolato da singoli individui dove l’affermarsi di ognuno nel mondo tende a non passare più attraverso il riconoscimento dell’altro, bensì da se stessi. Ognuno scrive il proprio copione e lo tutela come se fosse un copyright. Avviene cioè un processo di auto conferma – sono io e soltanto io a decidere chi sono e quanto valgo – che porta in ultima istanza al relativismo. L’attuale variante fascista del Governo Meloni rispecchia appieno questa logica. Il mettere sulle stesso pieno l’antifascismo ed il fascismo, quest’ultimo un progetto criminale, significa dire che ci sono due verità. Il che, paradossalmente, significa implicitamente affermare che non c’è più nessuna. Gli attuali governanti si rendano conto di questo paradosso?

D. – Alcuni giorni orsono è stato pubblicato il report Donne vittime di violenza, su tutti i reati che vedono le donne tristemente protagoniste, dallo stalking ai femminicidi alla violenza sessuale. Dal 2020, anno nel quale si è registrato il dato minore (4.497), l’incremento è stato significativo e si è attestato, nel 2022, a 5.991 eventi. Nell’ultimo anno resta invece sostanzialmente stabile l’efficacia dell’azione investigativa, con una percentuale di casi scoperti che si attesta al 61% (+4% sul 2021). Aggiungo io i più del tutto in silenzio. Siamo tutti bravi a denunciare di fronte all’evidenza, ma molto spesso una sorta di omertà o indifferenza colpisce…

R. – I diritti umani in generale e in particolare quelli a tutela delle donne, sono probabilmente tra i più violati. Lo sono perché le donne, come i minori, gli anziani, i migranti, i barboni sono soggetti vulnerabili. Lo sono nel senso che il tessuto sociale che le protegge dalla violenza è debole. Lo sono perché la cultura profonda – con le sue radici millenarie – pone al centro il maschio come detentore del dominio. Basti pensare che soltanto nel 1981, con la legge 442 sono state abrogate le disposizioni sul delitto d’onore. Fino ad allora era rimasto in vigore l’art. 587 del codice penale del 1930 che consentiva una riduzione di pena per chi uccidesse la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere l’onor suo o della famiglia. Naturalmente il diritto conta e nulla toglie al valore anche simbolico della Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale del Consiglio d’Europa che mira a prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. Ma in ultima istanza spetta a noi cittadini dire basta. Dirlo in tute le sedi in cui operiamo, dalla famiglia, alla scuola, al posto di lavoro. Senza peraltro illuderci che la soluzione sia dietro l’angolo: i processi di mutamento culturale tendono ad essere molto lunghi, di generazioni, e l’impegno di togliere al maschio il suo dominio non fa eccezione. Un impegno, come i due recentissimi femminicidi confermano, che non può fondarsi soltanto sul rafforzamento della sicurezza delle donne ma richiede un coinvolgimento massiccio ed attivo da parte dei maschi stessi.

D. – Tema immigrazione: si è parlato a lungo del dramma di Citro, così come pare davvero difficile riorganizzare l’accoglienza degli immigrati che arrivano in Italia su mezzi spesso di fortuna. Quale potrebbe essere la soluzione?

R. – Ed il nostro paese tradizionalmente aperto all’accoglienza si è davvero svegliato intollerante o vittima di un malcontento sociale comune?
L’emigrazione, lo sappiamo, è un fenomeno naturale e, in quanto tale, inarrestabile. Intere popolazioni si spostano da un territorio, addirittura da un continente ad un altro a seguito di catastrofi come le epidemie o la desertificazione. Oggi a questi spostamenti contribuiscono in larghissima misura le guerre, le guerre di cui noi siamo in larga misura responsabili. E a fronte di questo nuovo stato di cose quale è la nostra risposta? Rimandiamoli indietro, costruiamo dei muri. Una scelta razzista che non può sottrarsi ad un giudizio di ordine etico. Perché bisogna pure chiedersi come sia possibile conciliare il respingimento di esseri umani con i valori laici e cristiani che costituiscono, sulla carta, il nostro capitale culturale e di cui i politici italiani ed europei si riempiono sempre la bocca. E poi ci sono poi due interrogativi, entrambi di natura economica. Un primo: come pensiamo di rispondere alle richieste di forza lavoro da parte del mercato? Un secondo: poiché, dati demografici alla mano. No istiamo diventando sempre più un Paese di vecchi, chi provvederà alle pensioni delle prossime generazioni? Se no,n ci decidiamo ad aprire le porte ai migranti immettendoli nel mercato del lavoro il paese andrà incontro nel medio-lungo periodo ad una vera e propria bancarotta.
In una società che vuol essere riferimento di sviluppo le morti bianche sono parte, nostro malgrado, della quotidianità. Il nostro paese è un’eccezione? Quali potrebbero essere le soluzioni ?
Per cominciare dobbiamo cambiare il linguaggio. Perché di bianco non c’è nulla in queste morti. C’è il rosso del sangue delle vittime di un lavoro spesso condotto in condizioni precarie, in nero (l’edilizia è il settore dove è più praticato) o dove, comunque il profitto viene anteposto alla salute. Io denunciai a suo tempo, parlo ormai di cinquant’anni fa, l’inadeguatezza della normativa in materia infortunistica ed oggi come allora si deve prendere atto degli intrinseci limiti del diritto. Le norme relative alla sicurezza sul posto di lavoro sono ovviamente indispensabili ma poco cambia se non si prendono in considerazione il contesto lavorativo, l’organizzazione del lavoro con i suoi tempi in particolare, e la volontà effettiva del datore di lavoro e del lavoratore di impegnarsi nella prevenzione. Senza dimenticare peraltro che l’asimmetria del rapporto di lavoro unitamente alla progressiva perdita di tutela del lavoratore rende quest’ultimo oggi più che mai ricattabile. È il caso tra gli altri dei migranti stagionali che, pur sottoposti molto spesso a condizioni lavorative disumane, rinunciano a denunciare il datore di lavoro per non perdere il lavoro.

 

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