L’anno1863 regalò alla giovane Italia un caso di spionaggio forse il primo episodio in cui i Servizi Segreti deviati tentarono, riuscendovi, di riscrivere la storia, o meglio aiutarla nel suo corso. Si racconta infatti di un tal Filippo Curletti, agente segreto del conte di Cavour che in un libretto di una trentina di pagine l’opera ricorda come furono condizionati i risultati del referendum del 1861, che sanciva l’annessione al Piemonte delle terre liberate da Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II
. Quest’uomo che “contribuì a fare l’Italia” a modo suo e potrebbe anche essere ricordato insieme ai numerosi eroi del Risorgimento, se non fosse che, nel corso di un processo svoltosi a Torino, risultò addirittura essere colui che impartiva gli ordini e forniva le indicazioni ad una banda di feroci criminali. Analizzare le sue vicende giudiziarie, la sua spregiudicata attività di agente segreto, consente di vedere il processo d’unificazione sotto una luce diversa, meno gloriosa, ma più credibile. In precedenza l’ispettore Filippo Curletti era stato tirato dentro ad un processo di comune criminalità da un tal Vincenzo Cibolla, un malavitoso noto alle forze dell’ordine. Interrogato dal giudice istruttore Soardi, fu il primo pentito della storia giudiziaria del Regno.
Camillo Benso conte di Cavour
Confessò di essere un membro della“banda della Cocca” che imperversava dal 1857 in città con truffe, furti, stupri e omicidi. Una banda che aveva riunito tutte le batterie malavitose di Torino (cocche), tessendo protezioni in quella parte grigia della città dove si congiungevano malaffare. Fu convocato con Curletti, irreperibile perché in missione tra Perugia e Napoli per conto di Cavour. I giornali promossero Cibolla eroe tenebroso di romanzetti mielosi e con la penna di Beghelli, “La Cocca” divenne una Società segreta in un romanzo a puntate. Il processo si chiuse a settembre con nuove condanne, ma Curletti non fu incriminato nonostante ci fossero prove evidenti le prove emerse del suo collegamento con la banda. Sotto la pressione dei giornali, il 10 settembre Curletti chiese al Ministero degli Interni un supplemento d’indagine sulla propria condotta. Contemporaneamente, il Procuratore Generale aprì un nuovo procedimento penale e il 17 fu spiccato un mandato d’arresto «contre Philippe Curletti, ancien employé de police, prévenu de graves abus».
Vittorio Emanuele II
C’era puzza di scandalo, così i giornali fecero il diavolo a quattro tirando in mezzo anche gli ex Governatori dell’Italia appena annessa: d’Azeglio, Farini, Cipriani, Ricasoli, Pepoli e Della Rovere (che aveva inviato Curletti a Palermo per riorganizzare la polizia segreta dopo lo sbarco dei Mille). Il processo fu breve, forse perché si doveva tranquillizzare l’opinione pubblica. A Curletti furono riconosciute tutte le accuse più qualche omicidio e gli diedero vent’anni di lavori forzati, teorici, già perché l’imputato era già in Svizzera e nessuno andò a cercarlo. La sentenza circoscriveva lo scandalo alla cronaca nera e gli uomini del primo Governo Unitario si tranquillizzarono. Curletti era di molte risorse e quando si presentò al processo il suo piano di fuga era già pronto. La morte di Cavour a giugno gli aveva tolto ogni protezione, ma Curletti aveva un archivio con dentro tutti gli uomini che avevano “fatto” l’Italia e un Risorgimento molto diverso da quello che si raccontava. Curletti da Ginevra si sposterà poi a Filadelfia, negli Stati Uniti, dove morirà qualche anno più tardi. Questo personaggio che pare sia uscito dagli archivi del controspionaggio aveva bagaglio a mano, già un archivio lungo lungo che come per tradizione contava su nomi importanti del Regno Sabaudo, del Regno delle due Sicilie ed anche dello Stato Pontificio. Curletti aveva operato, come già accennato, anche a Sud e nei giorni precedenti il plebiscito aveva organizzato il controspionaggio sabaudo cercando di garantire la buona riuscita della tornata elettorale. E Curletti faceva parte di quei Servizi Segreti che erano all’epoca fra i più temuti perché di grande esperienza.
La Commissione Superiore di Statistica fu un osservatorio privilegiato per la raccolta di informazioni. Ufficialmente il Piemonte non aveva un Ufficio Informazioni, anche se era inserito nella Istituzione del Real Corpo dello Stato Maggiore Generale del 1816, poi nelle Istruzioni del 1850 sulle “pattuglie segrete”. Istituzionalizzato nel 1855 con la ”Istruzione La Marmora7”, il Servizio Segreto continuò a non esistere negli organigrammi e negli Ordini di Servizio, neppure nel 1861quando l’Armata Sarda divenne Esercito Italiano. Quando Cavour assunse il Dicastero degli Esteri nel 1855, la sua rete di spionaggio diventò il Servizio Segreto del Ministero degli Esteri, che diresse attraverso Negri di Saint Front, parallelo e in concorrenza a quello militare diretto da Govone, il padre del Servizio Segreto italiano. Di fatto gli Ufficiali piemontesi continuarono a giudicare l’intelligence “‘na bala di Stat Magiur” (una balla dello Stato Maggiore, in piemontese), mentalità che permise a Cavour di consolidare la propria rete informativa, costituita quasi tutta da civili e quasi tutti di poca fama, pagati in denaro e cariche pubbliche.
Così il 21 ottobre del 1860 la popolazione dell’ormai ex Regno delle due Sicilie venne chiamato a votare in forma plebiscitaria per l’annessione dell’ormai al Regno di Sardegna. Quel giorno il 79% degli aventi diritto al voto si espressero per il Sì. Il regolamento elettorale ricordava che il voto doveva essere dato “per bullettino stampato o scritto portante la scritta SI o No”. La scheda, una volta piegata, doveva essere consegnata nelle mani del presidente del comitato elettorale che l’avrebbe poi depositata nell’urna chiusa alla presenza dell’elettore. Sarebbe paradossale chiamarlo voto segreto anche perché lasciava poche possibilità a chi voleva votare per il No. La critica giornalistica si mosse, rilevando molte irregolarità “…il plebiscito giungea fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l’identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i Sì e i No, lo che rendeva manifesto il voto”. D’altronde, come diceva un giornale di allora (Il Regno d’Italia), “il Sì o il No rimane tuttavia libero ma è una tal libertà che servirà a imprimere una macchia indelebile nella coscienza di chiunque profferirà un No invece di un Sì”.Si votava tra l’esibizione di bandiere tricolori con stemma sabaudo e la vigilanza accorta di addetti, e guardie accomodati all’entrata e spesso all’interno del seggio
. Si racconterà poi che quei pochi che ebbero il coraggio di votare contro subirono minacce fisiche e violenze. Non più tardi che venti giorni prima, il 2 ottobre, Cavour aveva chiesto al parlamento piemontese il potere di compiere mediante un decreto l’annessione di tutte le province che avessero votato l’unione al regno di Vittorio Emanuele attraverso un plebiscito. Arrivata la notizia di questo decreto a Crispi e Garibaldi a Napoli, si decise di procedere con il plebiscito. Sino ad allora si era discusso sulla possibilità tra un voto popolare o un’assemblea in grado di aggiungere delle condizioni all’annessione. Tutta la discussione di quei giorni verteva sul significato del plebiscito: era un’unificazione o un’annessione? Si voleva aderire al Regno Piemontese incondizionatamente? Oppure era meglio convocare un’assemblea in grado di decidere le modalità dell’unificazione? Garibaldi, anche se fu più volte in disaccordo con Cavour durante la sua spedizione nel Sud, assunse il ruolo militare e si rassegnò agli eventi poiché era completamente assorbito dalla battaglia del Volturno, ancora convinto di poter arrivare a Roma. La notizia del plebiscito di Napoli rimbalzò anche in Sicilia dove il prodittatore Giuseppe Mordini aveva deciso per un’assemblea.
Francesco Crispi
Convinto di assecondare Garibaldi, disdette l’assemblea e convocò il plebiscito per il 21 ottobre come stabilito anche a Napoli. Il 15 ottobre, prima della consultazione, Garibaldi precisò subito che «le Due Sicilie fanno parte integrante dell’Italia, e che egli deporrà la Dittatura nelle mani de Re».Si votava sì o no alla seguente domanda: “Il popolo vuole l’Italia Una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti. Il nuovo stato italiano aveva preso le prime mosse da un brutto plebiscito preceduta da una spedizione di occupazione all’epoca poco celebrata e Servizi Segreti che avevano già acquisito il controllo di molti dei meccanismi della politica italiana.