Un’intervista questa molto preziosa per i contenuti e la delicatezza con la quale Siria Scarfò ci spiega come la scelta di raccontare la propria storia di abusi rappresenti un atto di responsabilità verso sé stessa e verso chi, ancora nel silenzio, soffre esperienze simili.
Le sue parole ci ricordano la difficoltà di affrontare i propri traumi, il percorso lento e doloroso di elaborazione, e l’importanza della fede nel trasformare la sofferenza in un messaggio di speranza. Nonostante le ferite ricevute dalla Chiesa, Siria ha vissuto la vocazione religiosa come dono, distinguendo la fede personale dalle contraddizioni dell’istituzione.
Così proprio lei affronta anche il tema dell’identità e dell’omosessualità in ambito religioso, sostenendo la necessità di una Chiesa meno ipocrita e più vicina al Vangelo.

Oggi, fuori dal convento, prosegue il suo cammino di rinascita, mantenendo una spiritualità profonda e invitando chi soffre a cercare aiuto, ricordando che anche nelle tenebre può brillare una stella di speranza.
D. – Cosa rappresenta per te questo “svelarti” e perché hai deciso di condividere la tua storia così personale?
R. – Credo sia stato principalmente un atto di responsabilità. Quando una persona trova il coraggio di parlare, anche solo con un filo di voce, apre una strada per chi ancora non riesce. Ma quando trovi il coraggio e scegli comunque di non parlare, di non aiutare, di non tendere la mano, rischi di diventare complice del silenzio. E io, da vittima, non volevo diventare complice e quindi, in qualche modo, anche carnefice. Se sei vittima e davvero non hai ancora la forza di parlare — e lo so, lo capisco — allora sei “giustificato”; il silenzio è una forma di protezione. Ma quando la forza arriva e si sceglie comunque di voltare lo sguardo dall’altra parte, si finisce per abbandonare “quelli come te”. Per questo credo che la mia scelta sia stata un atto di responsabilità verso me stessa, verso Siriuccia e verso chi, magari in silenzio, porta ferite simili alle mie. Anche la sofferenza, se portata alla luce con franchezza e sincerità, può diventare un seme di speranza per qualcun altro
.D. – Nel libro racconti degli abusi subiti durante l’infanzia. Quanto è stato difficile affrontare questi ricordi durante la scrittura e quale processo hai seguito per elaborare queste esperienze traumatiche?
R. – È stato come riaprire una stanza che conosci bene, ma in cui non entri da anni: sai cosa c’è dentro, ma il profumo, la polvere, la luce… fa male, molto male! Quindi il processo che ho seguito è stato lento, rispettoso e, inevitabilmente, doloroso. Mi sono fermata tante volte, ho preso appunti per anni, ho cercato di capire come potessi davvero aiutare chi, come me, vive questi momenti di bisogno e di solitudine profonda. In tutto questo percorso, la Fede è stata fondamentale per me. Sentivo che, attraverso di essa, quella crudeltà subita si stava trasformando in parole capaci di diventare balsamo per qualcun altro (e so cosa significa) È stato anche un modo per guardare “Siriuccia” negli occhi. In realtà, tutto è iniziato un giorno in cui, per caso, aprii un hard disk e vidi le sue foto. È stato come incontrarla di nuovo, ed è da lì che è cominciato il vero cammino di scrittura. Elaborare le esperienze traumatiche è davvero un processo lungo, e credo che purtroppo non esista una “guarigione” completa, perché parliamo di sentimenti, di anima, di pensieri, di identità. E tutto questo non è semplice. Già in condizioni normali di crescita è difficile diventare adulti in modo armonioso… figuriamoci in situazioni come la mia.
D. – Hai avuto il coraggio di denunciare quanto accaduto. Che risposta hai ricevuto dalle istituzioni ecclesiastiche?
R. – Quando ne parlai anni fa per la prima volta, purtroppo non fui ascoltata. Anzi, seppellirono tutto, compreso il referto psicologico che avevo portato. È stato molto, ma molto doloroso!
Oggi, però, pare che qualcosa si sia finalmente mosso. È già stata avviata la prima fase investigativa, sono stata ascoltata e ora attendo che le cose abbiano un risvolto — spero positivo — non tanto per me, perché ciò che ho vissuto non si cancella, ma per moltissime altre vittime di sacerdoti e suore. E anche per la Chiesa stessa, per la sua credibilità, che sta perdendo nel continuare a negare inutilmente e palesemente l’evidenza. Io credo che, se davvero si vuole guarire e diventare poi anche “medici” per gli altri, la prima cosa da fare è riconoscere di essere malati. Solo così si può davvero iniziare a guarire.
D. – Nonostante gli abusi subiti all’interno della Chiesa, hai scelto di prendere i voti e diventare suora. Come si conciliano queste due esperienze apparentemente così contrastanti?
R. – Capisco benissimo quanto possa sembrare contrastante, È davvero difficile spiegare cosa sia la vocazione a chi non la sente, perché non dovrebbe essere un ripiego o una fuga da qualcosa o da qualcuno. Per me non sono realtà contrastanti, ma distinte, e so bene quanto possa essere difficile da comprendere. Per me, che ho fede, la vocazione è stata un dono che, con il senno di poi, mi ha anche aiutata ad avere la forza di andare via dal mio carnefice (anche se poi ho incontrato altri), ma almeno ero uscita da quell’inferno senza neppure rendermi conto da dove avessi trovato la forza per farlo.
Certo, è un inferno che è comunque rimasto dentro, nel cuore e nell’anima, ma almeno non sentivo più bruciare sulla pelle le fiamme. L’esperienza conventuale per me è stata un dono ed è stata un’esperienza davvero di vita che spero mai di dimenticare, soprattutto gli anni vissuti in Messico.
La mia fede non è mai dipesa (neppure oggi) da preti, suore o laici impegnati, ma esclusivamente da quel Gesù che da piccolina chiamavo Amico e che mi dava attimi di serenità.
Sono molto dispiaciuta, perché mi rendo conto di quanto sia difficile spiegare tutto questo, soprattutto a persone che tendono a vedere solo il negativo. La Chiesa stessa non si sta rendendo conto che deve assolutamente cominciare a togliere il marcio, per far emergere davvero il bello che c’è: potrebbe salvare molte persone, nel vero senso del termine.
Capisco anche quando alcune persone prendono in giro la mia fede. Alcuni lo fanno senza cattiveria, altri invece con crudeltà, eppure vedono davanti a loro una donna ferita e abusata, e hanno il coraggio di essere insensibili solo perché credo in Dio. Io rispetto tutti, perché credo che alla fine la mia fede non faccia del male a nessuno. E se fa stare bene me, questo è più che sufficiente.
D. – Nel libro affronti anche il tema della tua omosessualità. Come hai vissuto questo aspetto della tua identità all’interno di un contesto religioso che spesso fatica ad accettarlo?
R. – Credo si debbano mantenere staccati il concetto di vivere da suora – e quindi fare voto di castità in sé, non importa se ci senta gay o etero – e il vivere l’ omosessualità attivamente da laici. La Chiesa non chiede quale sia la tua tendenza, se decidi di consacrarti scegli di non praticarla. Credo più semplicemente che la Chiesa possa davvero fare la differenza se solo fosse meno ipocrita e più vicino agli insegnamenti del Vangelo.
D. – Hai deciso di lasciare la vita consacrata. Quali sono stati i motivi che ti hanno portato a questa decisione?
R. – Rispondo davvero molto brevemente: il punto non è stata la mancanza di vocazione, ma delle circostanze che, come scrivo nel libro, non mi hanno più fatto respirare.

Siria oggi
D. – Oggi hai una nuova vita professionale e personale. Come è stato questo percorso di rinascita?
R. – Ancora sono in cammino. Aver vissuto dodici anni in convento ha significato dover imparare, in qualche modo, a stare nel mondo, un mondo che a volte sento ancora scomodo, ma che continua a sorprendermi.
D. – Qual è oggi il tuo rapporto con la Chiesa e la spiritualità?
R. – Molto tenero. So che può suonare banale per alcuni, ma per me è così. Mi sento molto vicina alla Chiesa Cattolica, e la mia spiritualità va oltre lo sporco che purtroppo vedo. Credo che, se c’è polvere su un comodino o macchie su un pavimento antico, questo non significa che tutto sia brutto o da buttare: significa solo che va rispolverato e curato.
Credo fermamente in più fatti, meno parole, e in un maggiore rispetto anche per chi, da consacrato, vive la propria vocazione in modo convinto e autentico, e si trova a essere deriso o giudicato a causa di chi sporca, macchia, insudicia, e talvolta corrompe l’immagine della Chiesa. La mia fede non si misura da questi atti, ma dalla capacità di vedere il bene che rimane e che può continuare a essere trasmesso.
D. – Per concludere, quale messaggio vorresti lasciare a chi ha vissuto esperienze simili alle tue o sta attraversando momenti difficili?
R. – Non voglio dare risposte facili, perché non voglio illudere nessuno. Per esperienza vissuta, so quanto sia facile sentirsi sopraffatti, chiudersi e non fidarsi. E so anche quanto possa essere rischioso affidarsi completamente perchè per un attimo intravedi un po di luce.
Per questo invito chi vive esperienze simili a parlare MA con attenzione scegliere “la persona” a cui raccontare la propria storia. Non è un atto di debolezza, ma di forza: serve a proteggersi e a costruire attorno a sé una rete solida, capace di sostenere davvero. Ci sono persone che vogliono aiutare, e trovarle può fare una differenza enorme.
Non voglio illudere nessuno, ma credo che anche nei momenti più bui si possa trovare un barlume di luce e di speranza. Ognuno può guardare la propria Luna, e scorgere lungo il cammino qualche stella che illumini la propria strada.

