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Lo spazzacamino

13/08/2024 | Vecchi Mestieri

di Alessandro Claudio Giordano

Anni fa  il camino, nelle case, era fondamentale, questo perché sul fuoco ci si cuoceva la polenta, le minestre e tutto il mangiare “caldo”, ed il camino doveva essere sempre ben pulito, perché se cadeva un pezzo di caligine nelle pentole, saltava il pasto e, a quei tempi, non ce se lo poteva permettere. Così alcune persone, spinte dall’estrema povertà, lavoravano come spazzacamino, un lavoro duro e pericoloso. In passato tra gli spazzacamini si contavano molti bambini: più piccoli erano, più riuscivano a calarsi facilmente all’interno dei camini. Possiamo però immaginare quanta fatica potesse costare, a bambini così piccoli, strappare via la durissima caligine che si formava.

La cosa più difficile e importante era per lo spazzacamino il modo con cui si doveva salire su per il camino. Bisognava spegnere il fuoco, portare via i tizzoni, staccare la catena e togliere la barra che la teneva agganciata. Poi il padrone reggeva sulle ginocchia il bambino e lo infilava su per il camino. Il bambino con la forza dei gomiti, coi ginocchi e con la schiena saliva sul camino, mentre saliva doveva pulire tre pareti, quella davanti e quelle di fianco. Poi, una volta arrivato in cima, scendeva e puliva la quarta parete. Sul camino si saliva a piedi nudi, senza scarpe e senza calze. Nel settecento e nell’ottocento era abituale vedere gruppi di bambini che percorrevano le strade dei paesi o delle città. Solitamente accompagnati dal “padrone”, che li obbligava a sporcarsi la faccia con della caligine, perché se fossero stati puliti, le persone potevano pensare che non sapessero fare il proprio mestiere. I bambini avevano spesso paura di infilarsi in quei passaggi stretti,  e non era raro che alcuni soffocassero per inalazione di fuliggine o cadessero fatalmente.

Negli anni, anche per questo, sono stati inventati vari dispositivi di pulizia per aiutare a rendere più sicuro il lavoro di spazzacamino, come le canne e le spazzole o la sfera di ferro da far scendere per la canna fumaria. Così dietro l’immagine romantica del buon spazzacamino sporco di fuliggine che corre sui tetti, gran lavoratore e magari pure allegro e affascinante ballerino, come in Mary Poppins, c’è in realtà un mestiere spietato, con bambini a volta piccolissimi, in alcuni casi reclutati a forza negli orfanotrofi già a quattro o cinque anni, e scelti tra i più magri e denutriti, così da poter salire più agevolmente per le canne fumarie, tra orribili sofferenze degne di un romanzo vittoriano (in Oliver Twist Dickens risparmia al piccolo protagonista, seppure sfruttato in ogni modo, il dover fare l’apprendista spazzacamino), e talvolta la morte come unica via d’uscita. Così un uomo racconta l’infanzia da spazzacamino. d aggravare la situazione dei bambini spazzacamino c’era la vita sregolata, dovuta anche al mestiere itinerante che svolgevano: raramente avevano un posto coperto dove dormire, ricevevano poco da mangiare, in parte perché dovevano rimanere smilzi per infilarsi nel camino. Mangiare che spesso dovevano mendicare.

 

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Venivano anche percossi dai loro padroni o, se ritenuti inabili al lavoro, abbandonati “…… Fuori da una casa, dentro all’altra, senza mangiare, così mi abituai, quasi obbligato, secondo l’usanza, a cercare un pezzo di pane in tutte le case. Quando non si aveva più fame si chiedeva un bicchier di vino per far andar giù la polvere che noi fingevamo di bere, ma che poi lasciavamo sul tavolo affinché il padrone, quando veniva a prendere la fuliggine potesse berlo. Finita la prima settimana, mi trovai al sabato sera completamente esaurito, sfiduciato, conscio della terribile realtà, con le ossa rotte, con le giunture delle dita che sanguinavano.” Un’altra testimonianza di un ragazzo ormai uomo “Per prima cosa mi legavo le scarpe, poi mi infilavo la giacchetta nei pantaloni, per impedire che, arrotolandosi, mi ostacolasse la discesa. Mi mettevo in testa la carapüscia che infilavo sopra il collo della giacca, in modo che non mi entrasse la fuliggine contro la pelle. Levata la catena del camino e la stanga che la sosteneva, montavo su una sedia posta sotto la cappa e, munito di raspa e scopetto, iniziavo la mia salita su per quella parete priva di gradini. Andavo su a tentoni, con movimenti alterni, a forza di gomiti, di ginocchia, di schiena, puntellandomi alla canna del camino.

Nessuno può immaginare l’impressione che si prova a trovarsi racchiusi in un buco tutto buio, con la testa in un sacco, più il camino è stretto e più ti sentivi soffocare. Prima di ogni spostamento pulivo con la raspa sopra di me le quattro pareti, trenta quaranta centimetri per volta, fino ad arrivare in cima dove gridavo “Spazzacamino!”, dopo aver allungato il braccio fuori all’aperto, a testimonianza del lavoro compiuto. Scendendo ripulivo accuratamente le pareti con lo scopino. Poi raccoglievo la fuliggine nel sacco che mettevo fuori dalla porta, in modo che il padrone sapesse trovarlo e entrasse a riscuotere il compenso”. Nostro malgrado ecco la versione vera non romantica e per nulla cinematografica del mestiere dello spazzacamino.

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