Cominciamo con Sir Charles Spencer Chaplin, soprannominato Charlot come il personaggio del vagabondo (The Tramp, come è noto, nei paesi anglosassoni). Il mondo di Charlot, il vagabondo, è quello degli umiliati e offesi, dei poveri diavoli che lottano per sottrarsi alle angherie dei più forti, alle grandi e piccole ingiustizie.
Di Charlot S.A. Luciani, in L’anti-teatro: il cinematografo come arte, Roma 1928, dice che “può essere considerata la prima maschera del nostro tempo, venuta a redimere con la sua presenza tragica e comica, con la sua faccia dolorosa e sorridente, tutta la brutalità e la volgarità della vita moderna.” Ci sembra di desumere dallo stesso testo un’analogia con Pierrot.
Charlot, si è detto, è un vagabondo, un personaggio ai margini della società, incapace di conformarsi e però pieno di risorse.
Il Monello (1921) è la storia di un bambino affidato alla pietà altrui. Lo raccoglie Charlot, il vagabondo dal gran cuore che, fra mille sacrifici e astuzie, riesce ad allevarlo evitandogli l’orfanotrofio. Ci sono in effetti punti in comune con Oliver Twist di Dickens. Chaplin attinge ampiamente alla sua storia personale: separato dalla madre, ammalatasi, trascorre l’infanzia in orfanotrofio.
Nella Febbre dell’oro (1925) un omino, cercatore d’oro solitario, affronta i rischi e i pericoli dell’algido Klondike per trovare la ricchezza incontrando un altro cercatore con il quale cercherà di sopravvivere alla fame e al freddo. Quando l’omino si recherà nel paese vicino ci troverà l’amore.
In Luci della città (1931) Charlot, vagabondo dall’animo sensibile e pieno di aspirazioni, si prende cura di una piccola fioraia cieca e diventa amico di un milionario, cui salva la vita.
In Tempi Moderni (1936) Charlot, operaio di una fabbrica, imbullona dadi a ritmo vertiginoso, finché non perde un istante e finisce direttamente nella macchina dalla quale viene inghiottito. Chaplin critica, del resto, un sistema sociale giudicato iniquo e vede nel lavoro alla catena di montaggio la trasformazione dell’individuo in automa.
Il Grande Dittatore (1940) è la satira nei confronti del nazismo e del fascismo. Un piccolo barbiere ebreo di una cittadina tedesca viene scambiato per il dittatore. La straordinaria somiglianza con il dittatore gli consente di sostituirsi a lui e pronunciare un discorso alla nazione che ha molto senso ancora oggi e che parla soprattutto all’uomo semplice e buono che desidera semplicemente essere libero e cosciente delle proprie azioni.
Il discorso all’umanità https://youtu.be/oIq0i6de8XE?si=SEcV6q5hplhmcV0Q
Chaplin era londinese, viene dalla miseria e dal music-hall; per guadagnarsi da vivere aveva fatto più di trenta mestieri (tra gli altri: venditore di giornali, vetraio, garzone di parrucchiere). Aveva imparato a suonare il violino e il violoncello.
Esordì nel music-hall, che ai tempi non era un genere di spettacolo con la partecipazione di artisti internazionali e numeri di altissimo livello, ma qualcosa di molto simile al nostro avanspettacolo in cui si assisteva tra un bicchiere di birra e l’altro all’esibizione di cantanti, mimi, prestigiatori, giocolieri, comici e pagliacci.
Qualcosa del genere esisteva anche oltreoceano ed era noto come vaudeville, che è poi l’embrione del moderno spettacolo di varietà. Charlie Chaplin è un apprezzato attore di vaudeville e trova collocazione “naturale” nel nascente cinema nel genere delle slapstick comedy: se avete visto “Oggi le comiche” avete chiarissimo di cosa si sta parlando, cioè le scenette con le torte in faccia, le cadute sulle bucce di banana, gli inseguimenti.
Charlie Chaplin non si limita alla ricerca dell’effetto comico o satirico. La formula dei film di Chaplin è realizzare opere artistiche che piacciano a tutti i tipi di spettatori, dire e mostrare cose vere proponendole sotto un aspetto nuovo, poetico, che arricchisca mente e cuore del pubblico. Far ridere, certo; ma anche sensibilizzare il pubblico verso i problemi sociali; in tempi lontani, così come un secolo fa, ed altrettanto oggi, la satira è il miglior mezzo per diffondere queste opinioni critiche, castigat ridendo mores, dicevano i latini.
L’uomo – per Chaplin – non è mai del tutto buono o cattivo; nei suoi film le situazioni e l’ambiente mettono in luce la crudeltà della vita, e nello stesso tempo propongono momenti di autentica poesia, come la storia d’amore tra Charlot e la giovane ladra in “Tempi moderni”.
Man mano Chaplin e il personaggio del vagabondo acquisiscono notorietà mondiale, al punto che nel 1918 poté dar vita alla Charlie Chaplin Film Corporation, la sua casa di produzione, assumendo il completo controllo dell’elaborazione di soggetto e sceneggiatura, il controllo sul materiale girato e distribuito e sulla costruzione degli spazi da utilizzare per le riprese.
Chaplin scriveva il commento musicale dei suoi film (sono suoi brani come “Smile”, o la “Titina”, di “Tempi Moderni”, “Terry Theme”, tema di “Luci della Ribalta”). Vinse un Oscar per le musiche di “Luci della città”. Usava scrivere orecchiabilissimi temi romantici in tempo di valzer, i temi più dinamici in ritmo binario (due quarti o quattro quarti) oppure a ritmo di tango.