Sull’eco del concerto/Che insieme ci trovò/Ripeterò ancor la strada/Che mi porta a te
Ovunque sei, se ascolterai/Accanto a te mi troverai
Vedrai lo sguardo/Che per me parlò/E la mia mano/Che la tua cercò
“Il nostro concerto” è uno dei capolavori della musica leggera italiana degli anni Sessanta. E’ un brano di impianto chiaramente sinfonico, che parte con una lunghissima introduzione strutturata come un vero e proprio concerto per pianoforte e orchestra, e prosegue con la voce dell’artista che canta un motivo in crescendo, fino all’acuto finale. Una canzone che emoziona e porta quasi alle lacrime. Bindi che purtroppo non è riuscito ad avere la carriera che meritava, emarginato dal mondo della musica e della televisione per aver apertamente dichiarato la tua omosessualità cosa che all’epoca (non che ora sia molto meglio, giusto un pochino) era vista come tabù.
“Ovunque sei, se ascolterai accanto a te mi rivedrai…” l’amore è più forte delle distanze, abbatte ogni barriera e comunica da cuore a cuore così basta prestare un po’ attenzione per sentire il calore della persona amata al nostro fianco. Un testo semplice, breve ma che t’investe, o almeno a me così accade, con una violenza emotiva senza eguali. Su quell’eco del concerto ritrovare e rivedere il volto e la mano della persona amata. Alla fine tutti abbiamo una canzone, un libro o una situazione che ci ricorda una persona illuminando il nostro cuore. Il brano venne premiato da un enorme successo commerciale (45 giri più venduto del 1960, insieme a “Il cielo in una stanza” di Mina), al quale contribuirono numerose versioni, tra cui quella più ritmata di Peppino Di Capri, quelle di Miranda Martino, Caterina Valente, Jimmy Fontana”. Fra gli interpreti che l’hanno reincisa ricordiamo Claudio Baglioni, Claudio Villa, Sergio Franchi, Renato Zero, Giuseppe Di Stefano, Peppino di Capri, José Carreras, Massimo Ranieri, Demis Roussos, Les Compagnons de la Chanson, Steve Lawrence, Gino Latilla, Bob Azzam, Franck Pourcel, Pino Calvi, Jimmy Fontana, Fausto Papetti, Franco Simone, Luciano Tajoli, Christian, Paola Musiani. Umberto Bindi era un genovese dei vicoli. Da ragazzo aveva vissuto gli stessi carrugi che erano stati anche di Bruno Lauzi, Fabrizio De André, Luigi Tenco e Gino Paoli (suo grande amico). Successivamente i suoi studi di pianoforte e fisarmonica combinati alla sua passione per arrangiamenti eleganti e ricercati faranno di lui uno dei maggiori esponenti della scuola genovese, in altre parole, quel fermento musicale che investì il capoluogo ligure a partire dagli anni 60 del secolo scorso. La fama di La fama per Bindi non tardò ad arrivare. La partecipazione a Sanremo come esordiente nel 1961 non passò inosservata. Quello era l’anno di 24mila baci e di Le mille bolle blu. Fu anche la prima edizione del Festival condotta da una coppia di donne, Lilli Lembo e Giuliana Calandra. Doveva essere all’insegna delle ampie vedute eppure pubblico e stampa si bloccarono di fronte a un anello portato la mignolo dal giovane Umberto. Quella del 1961 fu un’edizione sfortunata non per gli scarsi risultati raggiunti dalla bella canzone portata da Bindi, Non mi dire chi sei, ma perché, troppo concentrati su quel famoso anello che aveva dato nuovamente adito a pettegolezzi sull’omosessualità di Bindi, gli ascoltatori non avevano giudicato la canzone ma il suo autore e l’avevano fatto con una feroce cattiveria. Anni dopo Umberto Bindi ricordava “Parlavano solo del mio anello al dito mignolo e, dunque, solo pettegolezzi e malignità, cattiverie e infamie. Della mia canzone non fregava niente a nessuno. Volevano solo sapere se ero finocchio”