Erika Pisacco è una ex clarissa che, lasciato l’Ordine alcuni anni fa, si è raccontata in “Diciassette anni di clausura. Intime e segrete confessioni di una clarissa” un libro scritto a quattro mani con Giovanni Rossi. Con lei ho discusso delle ragioni delle sue scelte, le motivazioni che l’hanno portata prima a scegliere la vita monastica, e poi a rinunciarvi. Le difficoltà e violenze fisiche, ma soprattutto psichiche comuni, nostro malgrado, a molti gruppi ed ordini religiosi un tempo taciute e che oggi trovano conferma nelle sue come nelle parole di altre ed altri testimoni.
D. – Quando hai deciso di entrare in monastero e perché?
R. – Ho deciso a diciassette anni. Mi affascinava l’idea di queste donne che vivevano in assoluta povertà, dedite alla sola preghiera ed allo studio. Volevo anche far vedere a tutti che si poteva vivere benissimo con poco, senza soldi insomma. Quindi la scelta non era per vocazione, o meglio in momento successivo avrei capito le ragioni di quella scelta, ma prima no. Ho passato cinque anni a Città di Castello e tredici a Roma. Molte le differenza tra le due realtà. In Umbria si respirava una realtà di ordine contemplativo ed ancor più se in una dimensione di paese, in cui questa esperienza è ancor vista in modo molto mistico perché “ammantata di un alone di sacralità” che diventa quasi controproducente. Quella romana era molto ecumenica ed aiutava al confronto interreligioso.
D. – Quale reazione avevano avuto i tuoi genitori ed i tuoi amici alla tua scelta ?
R. – La mia famiglia era rimasta sgomenta anche perché io ero figlia unica e loro non si capacitavano di come mai volessi fare una scelta così forte. Però il mio saggio papà aveva capito, conoscendo il mio carattere,… tanto sarebbe stato inutile impedirmelo. Così almeno all’inizio hanno accettato con la speranza che poi mi avrebbero vista tornare indietro.
D. -Fede e vocazione cosa ti ha mosso verso l’ordine? E perché la clausura?
R.- Come detto, cercavo qualcosa che mi allontanasse dalla famiglia e dalla quotidianità. Da brava adolescente mi stava tutto stretto e quindi mi sono detta “… facciamo questo colpo di testa”. Se c’è un motivo che ha indirizzato la scelta è forse il fatto che io sia sempre andata a scuola dalle suore salesiane, quindi mi è stato più semplice immaginare quel mondo. Però la vocazione vera e propria è venuta dopo quando sono rimasta in convento. Ma nel momento della scelta non sapevo definire cosa fosse “la vocazione” e sinceramente non ero così profonda da poterla immaginare. Poi invece sì, superati i primi anni di convento, ed il primissimo che era stato un’affascinante novità, ed anzi seguiva la regola per la quale “più sacrifici si facevano più dimostravo a me stessa di poter dare di più”. Detto questo la scelta è maturata consapevolmente. Successivamente anni dopo l’avrei rielaborata.
D. – Ha un contraccolpo psicologico la clausura ed in convento ci si ammala?
R. – Sicuramente. In questo contesto le doti caratteriali condizionano la quotidianità. E spesso si somatizzano i problemi di ordine psicologico. Molte suore si ammalano per la vita che si conduce, per la poca attenzione ai dettagli personali. E’ un percorso difficile in cui le tue scelte sono valutate ed indirizzate. E si instaura un rapporto di dipendenza con chi controlla. A volte è il rapporto di sublimazione, di assoluta obbedienza. Ed alla fine il nocciolo del problema è proprio quello dell’obbedienza e nella clausura specialmente, per tutto quello che concerne il mondo femminile nella Chiesa è ancora molto stringente e la parola libertà è una conquista che mi sembra molto lontana. Io mi sono allontanata perché non accettavo l’idea che una persona, nel mio caso un prete, mi confessasse e imponesse le sue personali intuizioni dicendoti “…io sono Dio davanti a te e quindi tutto quello che io ti dico è di fatto ciò che tu devi fare no non hai neanche bisogno di pensarci” Ed i confessori spesso ricordavano che per esempio San Francesco aveva chiesto a un frate di andare a piantare nell’orto la le piantine al contrario mettendole le radici in alto e non nella terra e poi aveva premiato il frate che lo aveva fatto e rimproverato quello che aveva disobbedito. In questa situazione ci cade la persona fragile, non ci cade sicuramente quella che rompe le scatole come potevo essere io. Così per la persona debole subire è naturale e nel contesto del convento si sviluppa anche una sorta di paura per dice di distacco dalla persona che ti è superiore.
D. – Parliamo di volenza fisica e psicologica. C’è assonanza tra le due?
R. – La violenza fisica è di fatto una conseguenza alla quale non sempre la persona sa capire di potersi difendere, o ancor più ne è consapevole. Spesso la tendenza è ed era a abbandonarsi in una sorta di ipnosi per il fatto che la persona superiore a te ti dica di rappresentare Dio e quindi tutto quello che ti dice è di fatto ciò che tu devi fare no non hai neanche bisogno di pensarci e purtroppo ho notato che le monache e tra queste le più in vista in ordine a responsabilità, erano proprio le persone che non si ponevano il problema di dire “quello che sto facendo o che mi stanno chiedendo di fare e ha un senso o no?”
D. – Hai lasciato dopo quasi vent’anni’ E’ stata una sorpresa per coloro che ti erano e sono vicini, amici genitori?
R. – Quando raccontavo alle persone più vicine la mia decisione di lasciare l’ordine, ci rimanevo male perché avvertivo in loro felicità. Mentre per me era comunque una sorta di delusione per aver rinunciato a ciò che avevo scelto, dopo tanti anni ed avendo ricevuto all’interno del monastero un incarico importante. Ho chiamato i miei dicendo loro “ Tra una settimana sarò tra voi.” I miei mi hanno ri accolta. Loro si sono molto tradizionalisti quindi dopo aver accettato una prima in cui hanno accettato la mia scelta e poi aver apprezzato quella monastica, hanno dovuto rielaborare tutto, ma sono stata accolta e mi sono ripresa la vita.
D. – Quando sei uscita dalla clausura avevi trent’anni..
R. – Si, ed ho dovuto reinventarmi una vita. Perché mi sono lasciata alle spalle il passato. Uscire da una società che conoscevo ed in un certo modo rientrare in una completamente cambiata perché in convento si usavano ed ancor oggi si usano molto poco i computers, non esistevano e non esistono i cellulari e quindi ho dovuto recuperare un aspetto “tecnologico” utile anche per l’inserimento nel mondo del lavoro. Il mio unico vantaggio rispetto ad altre persone che hanno lasciato l’Ordine è stata l’età. Per il resto non sono stata assolutamente tutelata. E per me questo è poco cristiano perché nel momento in cui una persona che vive in casa tua per diciotto o vent’anni se ne và dovrebbe essere aiutata nel passaggio alla nuova dimensione e non solamente condannata “per aver tradito Dio”. Io sono stata fortunata perché i miei genitori mi hanno accolta ed aiutata e come ti accennavo prima l’età mi ha consentito di reinventarmi un lavoro, ma coloro che sono uscite a cinquant’anni, e non sono poche, questo privilegio non l’ha avuto. Non immaginavo che “Diciassette anni di clausura. Intime e segrete confessioni di una clarissa “ potesse avere un impatto così forte e sono contenta perché è stato il mio primo libro e mi ha aiutato a guadagnare dei contratti editoriali interessanti aprendomi poi la strada dell’editoria e quindi inserirmi nel mondo del lavoro.
D. – Il cardinal Martini ricordava “…la Chiesa è indietro duecento anni al mondo?” Quanto è vera questa affermazione?
R. – Si il cardinal Martini aveva ragione. A Roma ho avuto la fortuna di vivere in un monastero molto aperto a livello ecumenico. C’era sempre l’occasione di chiamare non soltanto rappresentanti del mondo ebraico ma anche ortodosso ed evangelico. I Vangeli che consideriamo come parola di Dio, e non parlo degli apocrifi ma quelli canonici, sono politica. Ed è interessantissimo leggerli al di là di ogni credo religioso e conoscerli nella loro forma perché raccontano quattro storie che sono diverse, perché ciascuna aveva il compito di trasmettere e parlare ad una comunità differente; perché quella di Luca era diversa da quella Matteo, Marco o Giovanni. E la nostra è comprensione parziale che ci rende “paolini” e non cristiani come abitualmente ripeteva la mia insegnante di ebraico, perché per essere cristiani dovremmo essere più “ecumenici” e cogliere dalle altre realtà aspetti diversi della religione che non siamo abituati a considerare e che invece sono importanti. Il mondo cattolico si lascia cullare da una sorta di fideismo e così ci si salva da ogni responsabilità ma si rinuncia anche ad ogni possibilità di confronto.
D. – Delle suore che ti hanno accompagnato in questi anni di impegno nelle Clarisse, me senti ancora qualcuna?
R. – Direi poche persone. Molte sono oggi anziane, Di molte ho perso i contatti ed al di fuori del contesto religioso non saprei come contattarle. Quindi..
D. – In “All’alba ti ritroverò”, hai raccolto la testimonianza della suora abusata ed hai firmato il libro con lo pseudonimo Rut Pavoncello
R. – Si. Su precise indicazioni della vittima ho utilizzato uno pseudonimo per firmare il libro. Ho raccolto le sue testimonianze incontrandola a più riprese. Tutti i riferimenti riportati sono di fantasia: nomi e luoghi. Purtroppo è reale la storia di una suora missionaria violentata a ventitré anni e messa incinta da un prete. Alla quale viene richiesta la rinuncia al figlio, che sarebbe poi stato lasciato in adozione, pur di mantenere il posto nell’Ordine. Lei rifiuterà, i genitori che adotteranno il bimbo lo cresceranno, ospitando anche la figlia in casa. Oggi questa persona ha pressappoco sessant’anni e vive come laica in un struttura religiosa. Durante la sua vita ha patito problemi di carattere psicologico che l’hanno costretta a più ricoveri.. Il caso è stato denunciato, ma il colpevole non c’è più. Il prete che l’aveva violentata è ormai morto. E’ sconcertante il fatto che i testimoni, siano a distanza di anni ancora omertosi e chiusi in silenzio.
D. – Hai ancora incontrato quella persona?
R. – No, non più. Pubblicato il libro non ho più avuto modo di sentirla. Resta comunque in me traccia di quegli incontri perché mi ha segnato sensibilmente sia la vicenda che la persona.