La Comunità di Difesa Europea: un sogno infranto?

di Alessandro Claudio Giordano

 

In questi ultimi giorni la crisi ucraina si è aggravata sempre più sollecitazioni più significative vennero però dall’esterno della comunità. L’Unione Europea si è contrapposta in questi giorni alla Russia con blocchi economici e l’organizzazione di punti di accoglienza e soccorso per tutti coloro che stanno faticosamente guadagnando la libertà attraverso i valichi di confine.

I paesi sono stretti nella morsa tra NATO e Unione, obblighi militari e politiche comunitarie che, pur preservando lo stato delle cose, impediscono qualsiasi iniziativa di carattere militare di attacco o difesa. Ad ormai due settimane dall’invasione da parte russa dell’Ucraina ancora è difficile sviluppare un piano che preveda anche i passaggi più essenziali. Così torna di attualità almeno nl quotidiano dibattito la possibilità molto remota di creare la Comunità Europea di Difesa così come si era prospettata nel secondo dopoguerra quando la fragilità europea doveva confrontarsi con una difficile situazione internazionale. Le tensioni provocate dalla guerra di Corea, le paure (più o meno fondate) di una strategia espansionista sovietica, di una pressione dell’Urss sull’Europa occidentale, non va dimenticato che la divisione della Corea (tra un nord comunista ed un sud filoccidentale) rimandava, per analogia, a quella tedesca (la Repubblica democratica legata al blocco sovietico, la Repubblica federale all’occidente), spingevano verso un ripensamento del ruolo della Germania dell’Ovest. Riarmare la Rft diventava un’esigenza imprescindibile nella logica bipolare del conflitto. Questa esigenza era però in aperto conflitto con le attese e le strategie della IV Repubblica francese, preoccupata di non consentire uno sviluppo della Germania e l’avvio di un processo di normalizzazione, tanto più con riferimento al settore militare. Il problema era piuttosto semplice: a pochi anni di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale e dopo la lunga occupazione nazista e le vicende legate al governo di Vichy l’opinione pubblica francese e la sua classe dirigente non potevano accettare una simile opzione. Si trovò unaa soluzione con l’elaborazione del cosiddetto Piano Pleven che consisteva nella creazione di un esercito comune che consentisse di sostenere il riarmo tedesco dentro una cornice europea, con funzioni di garanzia. Se questo riarmo, come affermavano gli Stati Uniti, appariva inevitabile allora occorreva trovare nella prospettiva europea una forma di tutela che preservasse la Francia da possibili pericoli connessi al ritorno di fiamma del nazionalismo tedesco. La Comunità europea di difesa (la Ced) che ha rappresentato un punto cruciale della storia del processo di unificazione rappresentava un punto decisivo per i francesi consisteva nel totale inserimento dell’esercito tedesco dentro l’organizzazione europea. Era questa una soluzione che differenziava la Repubblica Federale Tedesca dagli altri Stati-membri, i quali avrebbero goduto di una autonomia nella gestione di parte del proprio esercito nazionale. Di fronte allo stallo della situazione, Rft e Stati Uniti cedettero alle richieste della Francia e il 27 maggio 1952 i sei Stati-membri della Ceca firmarono il trattato della Ced. In cambio però venivano frustrate altre esigenze francesi. Il comando dell’esercito non sarebbe stato semplicemente europeo ma avrebbe posto la comunità sotto il controllo della Nato e, al contempo, il ruolo di ministro della difesa europeo cui aspirava la Francia venne del tutto eliminato. La firma del trattato della Ced apriva inoltre ampie discussioni all’interno delle varie nazioni coinvolte. I partiti di opposizione, tra i quali ovviamente i partiti comunisti italiano e francese, presentavano alle masse la tesi di una Ced strumento di guerra. La propaganda anti Ced fu centrata sulla parola d’ordine, suggestiva ed efficace, della pace. Fu questoun aspetto tutt’altro che marginale. Sfruttando l’articolo 38 del trattato si volle istituire una Assemblea Ad Hoc, il cui corpo avrebbe dovuto essere l’elaborazione di una comunità politica europea. A spingere in questa direzione fu, soprattutto, il presidente del consiglio italiano Alcide De Gasperi impegno giornate in confronti internazionali cercando di recuperare il fil rouge del consenso. Il Primo Ministro italiano sapeva che la necessità di una politica comune di difesa implicava anche l’adozione di una comune politica estera. Non si trattava più di integrare differenti settori dell’economia ma di ragionare in termini sovranazionali cedendo sovranità su uno dei pilastri fondamentali dello Stato nazione. I lavori dell’Assemblea si svolsero tra la fine del 1952 e i primi mesi del 1953. Non si avanzò di molto sul piano dell’integrazione sovranazionale rispetto a quanto era già previsto dalla Ceca e dalla Ced ma si era compiuto comunque un balzo avanti. Seppure in una versione limitata, la comunità acquisiva una propria dimensione politica. Il clima internazionale sembrò per un tratto trovare distensione e disponibilità. Un fuoco di paglia. Se non vi furono problemi nella ratifica della Ced da parte di Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, altrettanto non poteva dirsi per l’Italia e la Francia. De Gasperi cadde sulla legge elettorale che priopose al Parlamento contestualmente con l’ipotesi CED.

In Francia, infatti, il ritorno del nazionalismo e l’affermazione delle correnti neutraliste avevano messo in chiara minoranza i sostenitori della Ced. Pochi erano ormai disposti a cedere sovranità su un settore così delicato come quello della difesa e men che mai appariva plausibile sostenere la realizzazione di una comunità politica. Il 30 agosto del 1954 l’Assemblea nazionale respingeva la ratifica. Il processo di integrazione entrava così in crisi ed i problemi posti allora sul tavolo dei negoziati non furono più ripresi per decenni. A distanza di anni, e ne sono passarti tanti, oggi la crisi ucraina riproporrebbe questa possibilità. Il problema è però un altro. Riconoscere che la CED è la conseguenza di una precedente unione politica perché vanno condivise politica interna, estera e di difesa. Ad oggi, il sistema europeo di difesa si costruisce attorno alla Politica di sicurezza e difesa comune, come revisionata dal Trattato di Lisbona del 2009. È in particolare l’art. 42 del TUE (Trattato sull’Unione Europea) a fornire la base giuridica per l’azione dell’UE in materia di difesa, stabilendo le condizioni e i termini secondo cui le istituzioni europee devono agire.In questo momento, l’Unione ha a disposizione due diversi gruppi di intervento militare: i Gruppi tattici dell’UE o EU Battlegroups, contingenti militari di reazione rapida composti da circa 1500 uomini sotto il diretto comando del Consiglio dell’UE gli Eurocorpi o Eurocorps, una forza multinazionale a disposizione dell’UE e della Nato. Tuttavia, entrambi questi gruppi militari non rappresentano una forza armata sovranazionale soggetta esclusivamente agli interessi generali dell’UE. Perciò, non sono uno strumento efficace per garantire all’Unione di perseguire una politica estera incisiva. La crisi in Ucraina, il caotico ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan hanno reso evidente quanto l’Unione sia debole nello scacchiere geopolitico internazionale e hanno rinvigorito la spinta verso il rafforzamento del sistema di difesa comunitario. Così ecco la “Bussola strategica” Il documento ha l’obiettivo di porre le basi per rendere operativo, entro il 2025, un esercito di risposta rapida da almeno 5 mila uomini, costituito da contingenti di terra, aria e mare. Già a partire dal 2023 dovrebbero invece iniziare le esercitazioni militari. Inoltre, la Bussola pone l’attenzione sulla prevenzione degli attacchi cibernetici, aspirando ad attivare la Joint Cyber Unit già nel corso del prossimo anno. L’insieme di queste iniziative dovrebbe permettere all’Unione Europea di migliorare il suo peso nelle missioni estere e assicurare un più altro livello di difesa dei cittadini europei. E’ stato chiarito che questo progetto non ha intenzione di sovrapporsi né sostituirsi alla NATO, vuole al contrario porsi in collaborazione e sostenerne l’azione.