Donetsk e Luhansk: guerre e ricorsi storici

di Alessandro Claudio Giordano

Sono già trascorse più di due settimane da quando l’esercito russo è penetrato in Ucraina. Da quel giorno, il 24 febbraio, la cronaca dal fronte si sovrappone puntualmente e quotidianamente alla memoria di un capitolo tragico ed eroico della nostra storia, quello della ritirata degli alpini italiani dal fronte russo.

Così è difficile ragionare su quel fronte perché fatalmente si incrociano nomi e ricordi. E seppur questa non dovrebbe essere la nostra guerra e queste le nostre battaglie, il ripetersi dei nomi di luoghi che ci appartengono fa male al cuore: Kharkiv, la regione del Donbass, il fiume e la città di Dnipro. All’indomani della dissoluzione sovietica molti vecchi esponenti della nomenklatura avevano saputo riciclarsi e trasformarsi in magnati e imprenditori grazie alla spoliazione dei beni pubblici in un processo di privatizzazione selvaggia. Un fenomeno che ha avuto luogo in molte regioni dell’ex Urss ma che in Donbass ha visto l’emergere di clan oligarchici capaci di prendere il controllo politico e sociale della regione, limitando gravemente la formazione di una società civile.

 

Una regione industriale così ricca di risorse si è rivelata certamente attraente per le nuove generazioni di dirigenti mafiosi che cercavano di consolidare le proprie posizioni sociali ed economiche assumendo un controllo formale sul mondo della politica. Anni prima Viktor Yanukovich futuro presidente dell'Ucraina e la sua famiglia stavano già esercitando il controllo sulla regione di Donetsk. Molti degli attori politici ed economici più influenti dell’Ucraina indipendente provengono da questa regione: gli ex presidenti Kuchma e Yanukovich ma anche Rinat Akhmetov, Oleksandr Yefremov, Borys Kolesnikov, nomi più o meno noti che hanno segnato le sorti della regione e del paese. Grazie a loro il Donbass è divenuto oggi il tempio della corruzione, un luogo in cui soprusi e vessazioni sono quotidianità come il controllo ed il benestare del Cremlino. Negli anni le due repubbliche separatiste sono arrivate a costare miliardi di dollari alla Russia, costretta a versare soldi nelle casse dei separatisti.Il regime semi-coloniale russo nel Donbass sarebbe stato insostenibile sul lungo periodo. Forse anche per questo Mosca ha deciso per il riconoscimento delle due repubbliche, uscendo dagli accordi di Minsk e prendendo il controllo diretto della regione. Ai piccoli boss locali si sostituisce così l’unico vero signore della guerra, Vladimir Putin. Così l’economia è stata monopolizzata da imprese di proprietà dei separatisti.

I leader locali che si sono succeduti nel tempo hanno avviato una vera e propria economia di rapina, nazionalizzando e controllando le industrie locali. Gli stipendi sono crollati ai minimi storici. Chi aveva potuto lasciare le due regioni in tempi non sospetti l’ha già fatto. Sono quasi due milioni coloro che in tempi diversi sono emigrati nel territorio sotto controllo ucraino. Però per la guerra si paga dazio. Ed oggi il prezzo da pagare è davvero altissimo in danni e vittime con il rischio concreto di scivolare giù dalla china di una guerra voluta perché ritenuta controllabile, ma che dati i risultati di questi ultimi giorni potrebbe rappresentare il Vietnam russo. Abbiamo anticipato prima che i luoghi di questa guerra sono conosciuti da noi italiani perché proprio in quell’area in inverni gelidi abbiamo perso migliaia di uomini ed una campagna militare semplicemente impossibile da gestire sia da un punto di vista strategico che logistico. Questi sono luoghi conosciuti perché quasi ottant’anni orsono perdemmo decine di migliaia di soldati in quella disgraziata campagna di Russia. Dall'autunno 1942 il Corpo d'Armata Alpino, costituito dalle tre Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, era schierato sul fronte del fiume Don, affiancato da altre Divisioni di fanteria italiane, da reparti tedeschi e degli altri alleati, rumeni e ungheresi. Il 15 dicembre, con un potenziale d'urto sei volte superiore a quello delle nostre Divisioni (basti pensare che impiegarono 750 carri armati e noi non avevamo né carri, né efficienti armi controcarro), i Russi dilagarono nelle retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca schierate più ad Est. Esse dovettero sganciarsi dalle posizioni sul Don, iniziando quella terribile ritirata che, su un terreno ormai completamente in mano al nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una perdita di circa 55.000 uomini tra caduti e prigionieri. Mentre le Divisioni della Fanteria si stavano ritirando, il Corpo d'Armata Alpino ricevette l'ordine di rimanere sulle posizioni a difesa del Don per non essere a sua volta circondato. Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte tenuto dagli alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e quello dei Tedeschi a Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere il Corpo d'Armata Alpino in una vasta e profonda sacca. Davanti alla possibile catastrofe rimaneva un'unica alternativa: il ripiegamento immediato. La sera del 17 gennaio 1943, su ordine del generale Gabriele Nasci, ebbe inizio il ripiegamento dell'intero Corpo d'Armata Alpino di cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente, quasi intatta in uomini, armi e materiali. Dopo Nikolajewka la marcia degli alpini proseguì fino a Bolscke Troskoye e a Awilowka, dove giunsero il 30 gennaio e furono finalmente in salvo, poterono alloggiare e ricevere i primi aiuti. Il 31 con il passaggio delle consegne ai Tedeschi termina ogni attività operativa sul fronte russo. La marcia del Corpo d'Armata Alpino verso la salvezza fu un evento drammatico e doloroso in cui circa 40.000 uomini si batterono disperatamente, senza sosta, per quindici interminabili giorni e per duecento chilometri. Il 6 marzo 1943 cominciarono a partire da Gomel le tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo d'Armata Alpino. Il giorno 15 l'ultimo convoglio lasciò l’area di battaglia e diremmo che il 24 tutti o quasi raggiunsero l’Italia. Mentre per il trasporto in Russia del Corpo d'Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono 17. Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti: considerando che ciascuna divisione era costituita da circa 16.000 uomini, i superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense. La storia e le guerre non ci insegnano nulla ed oggi ancor più di allora realizziamo quanto sottile si la linea che separa strategia militare e politica con la più folle visione di un mondo putiniana. E’ difficile fare confronti, anche solo con quanto accaduto nel 2014. Ovvio i tempi sono cambiati ma le tattiche di guerra in zone tanto difficili nei mesi invernali mantengono delle specifiche che spesso, in campo chiuso, vengono assolte dalla guerriglia anche casa per casa. La geografia è importante, ci dicevano a scuola, e sul Donbass questa verità è particolarmente evidente. Incastonata tra Ucraina, Russia e Mar d'Azov (praticamente il Mar Nero), la regione delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk rappresenta un cuscinetto strategico, il piedistallo su cui poggia il progetto di Putin di una Russia unita in opposizione alla progressiva espansione occidentale verso Est. Detto questo chi prevarrà, o meglio quale strategia la spunterà? Quella neocolonialista russa o quella pan occidentale? Temo la neutralità perché sarebbe una soluzione che comprometterebbe le condizioni di democrazia e libertà ucraine. Ed in fondo solo un pazzo vorrebbe ripetere l’esperienza di zone franche neutrali in barba a trattati e storia, così come un’azione di distruzioo da noi segnali tangiline massiva di intere aree del paese e della popolazione. Tutti auspichiamo che il buon senso prevalga e che un giorno si torni di concerto a parlare. Ho però paura della retorica che troppo spesso ci accompagna. Oggi la “retorica” è l’unica cosa che non serve”. C’è in gioco la vita di una nazione calpestata, ci sono in gioco milioni di vite umane che reclamano giustamente rispetto per la loro storia e la loro condizione di essere umano. Non dimentichiamolo, così come aspettano da noi segni tangibili e concreti di una libertà riconquistata.