La scuola vista dai giovani: chiacchierando con Gabriele Farina (presidente Consulta Giovanile Cuneo)

di Alessandro Claudio Giordano

La scuola nelle sue differenti declinazioni è un tema forte della nostra quotidianità. Ne ho discusso con Gabriele Farina che in qualità di presidente della Consulta Giovanile di Cuneo è molto vicino alle tematiche del mondo giovanile che vive la scuola. Con lui abbiamo cercato di tracciare un percorso che ci aiutasse a capire limiti e prospettive di una realtà in continua evoluzione…

D. - Oggi la scuola italiana gode di buona salute?

R. - La scuola italiana è molto malata, ma può guarire. Il grande problema è la comorbidità, all’interno della stessa, di diverse malattie che rischiano di mummificare una delle istituzioni più importanti della nostra società. le problematiche variano per importanza e per incidenza in base alla porzione di territorio che andiamo ad analizzare.  Partendo dalla mancanza di personale o, peggio ancora, dalla mancanza di competenza dei professori e di chi dovrebbe accompagnare i giovani nel loro percorso formativo, fino ad arrivare alla degradazione delle strutture e del materiale. L’insegnamento dovrebbe essere una fiamma viva del nostro retaggio culturale. Un paese come l’Italia, intriso di storia, arte, tecnica e passione, dovrebbe essere la più grande fonte di sapienza a cielo aperto, invece arranchiamo, tra professori in burn-out e adolescenti che si “impasticcano” per sopportare l’ansia, tutti sintomi di una malattia radicata nella nostra scuola sempre più frenetica e richiedente. La sfida ha inizio, possiamo combattere la malattia. Dobbiamo diradare la nebbia creatasi attorno alla scuola e provare, con lo stesso coraggio che ultimamente vedo in molti giovani professori, a rivoluzionare i paradigmi che ci bloccano e ci agganciano al passato.  La scuola dei talenti è l’istituzione che resisterà, la scuola che non insegna nozioni “riempiendo” i giovani come giare vuote ma che crea vita all’interno delle menti giovanili, ne accende le passioni e ne riempie gli animi. Dobbiamo solo porci un'altra domanda, siamo pronti?

D. -Nel 2020 i paesi Ue avevano destinato complessivamente oltre 670 miliardi di euro al comparto dell’istruzione. Ovvero circa il 5% del prodotto interno lordo europeo dello stesso anno. Nel 2020 l’Italia aveva speso in educazione il 4,3% del Pil. Si potrebbe investire di più?

 R. - Onestamente non farei un discorso su quanti soldi spende l’Italia per la scuola, bensì parlerei volentieri della qualità delle spese che effettuiamo. Voglio essere provocatorio, per me lo stato italiano potrebbe anche stanziare la metà delle risorse sopra citate, a patto però che siano spese per creare con coscienza. Negli ultimi anni i fondi per la scuola sono stati destinati ad abbellimenti e strumenti che molto spesso sono lasciati all’interno delle aule come mausolei dello spreco. Penso ai banchi a rotelle, ai vari laboratori che troppo spesso vengono creati e che poi non sempre vengono utilizzati al cento per cento per mancanza di docenti formati ad utilizzarli, penso alle LIM e ai proiettori sempre più sofisticati che rendono superflui i modelli precedentemente acquistati. Con questo non voglio dire che non sia giusto fornire ai ragazzi tutti gli strumenti più all’avanguardia per apprendere al meglio, considero però il fatto che molto spesso questi accessori siano solo una bella ciliegina su una torta che non è uscita troppo bene dal forno.  A mio parere i soldi stanziati per l’istruzione andrebbero usati tenendo a mente due parole fondamentali: calore e accoglienza. La scuola dov’essere strutturalmente calda e accogliente per permettere ai ragazzi di studiare senza la costante preoccupazione dei riscaldamenti non funzionanti o degli spifferi alle finestre o ancora delle mura crepate che rischiano di cadere da un momento all’altro. La scuola dev’essere emozionalmente calda e accogliente per non far si che nessuno possa più dire: “Ho paura di andare a scuola”, “non voglio andare a scuola” o alzarsi la mattina con quel buco allo stomaco tipico di un’esperienza negativa che sai che non finirà a breve. La scuola dev’essere relazionalmente calda e accogliente, calda perché deve sempre favorire il dibattito e lo scambio di idee e accogliente per la sua capacità di evitare le prevaricazioni e le ingiustizie tra i pari. Questa sarebbe una scuola che spende bene i soldi che ha a disposizioni fossero anche pochi.

D - Ad oggi la scuola è ancora condizionata dal precariato?

R. - Più che condizionata io la definirei limitata. Molto spesso i professori più giovani, che solitamente sono anche i più propensi al cambiamento, hanno poco tempo per agire significativamente all’interno delle scuole e delle classi che gli vengono affidate. Negli anni ho visto professori carismatici e felici di fare il proprio lavoro che però cedevano a quel mondo statico e sempre uguale per colpa dei cambiamenti, della difficoltà di affezionarsi ad una classe che poi si sa già che a breve dovrai lasciare o meglio ancora ad un istituto che in cui inizi con la costante considerazione che non sarà mai il tuo istituto ma il luogo di lavoro di sei mesi o massimo un anno. Se vogliamo veramente puntare ad una scuola che metta il cuore nell’istruzione dobbiamo permettere anche ai docenti di aprirsi e di sentirsi a casa. Penso che nessuno di noi si metterebbe mai a cambiare la disposizione delle cose in una camera d’hotel, perché allora un professore che sa di avere un contratto di qualche mese dovrebbe esporsi tanto da cercare di cambiare qualcosa nell’istituto in cui va a lavorare?

D. - C’è a tuo avviso un percorso formativo preferenziale da consigliare ad un adolescente che voglia emergere nel contesto professionale?

R. - Non penso che in questo momento ci siano percorsi preferenziali. Nella mia visione, che io stesso reputo a volte fin troppo positiva, è solo il talento a far si che una ragazzo emerga in un qualsiasi ambito professionale. Ovviamente ci sono lavori che più di altri facilitano l’emergere delle persone, perché magari più di nicchia o meno ambiti da tutti, ma in linea di massima ogni professione con un po’ di lavoro e di pazienza può dare i suoi frutti. In una società sempre in cambiamento e rigenerazione l’unico consiglio che mi sento di dare ad un giovane è quello di analizzare in profondità le proprie capacità e passioni e ricercare con tutti i mezzi a sua disposizione tutte le possibilità lavorative che esistono e che potrebbero interessargli.  Molto spesso non scegliamo di fare il lavoro dei nostri sogni solo perché non siamo al corrente della sua esistenza.

D. - C’è posto per i giovani in Italia?

R. - Vorrei urlare un enorme sì ma senza illudere nessuno. Sono consapevole che sia ancora molto alto il livello di disoccupazione nel nostro paese, ciò non vuol dire però che non ci sia futuro.  Sono sicuro che ci sia ancora terreno fertile per i giovani nel nostro paese. Abbiamo enormi potenzialità inespresse e spesso basta solo ricercarle, come i minatori nelle cave, sporcarsi le mani scavando nei meandri della nostra mente e del nostro territorio per trovare miniere d’oro di possibilità imprenditoriali. Ho conosciuto in questi anni moltissimi giovani che hanno, solo grazie alla loro buona volontà, rianimato paesini montani spopolati, creato start-up innovative, rigenerato la cucina e la cultura dei loro antenati o creato metodi alternativi per svolgere le attività quotidiane. Tutto questo partendo solo da un’idea. Quindi, sono più che certo, che ci sia posto per i giovani in Italia, ma solo se si ha il coraggio di sognare.

 D. - Educazione per tutti significa effettivamente per tutti, in particolare quelli che sono più vulnerabili e hanno maggiormente bisogno”...

R. - È brutto che si debba sempre specificare. Quel “in particolare” presuppone che nell’affermazione precedente sia stato tralasciato un qualcosa. L’educazione è per tutti, questo dovrebbe essere tatuato in tutte le menti, non dovrebbe neanche più creare scalpore perché, ormai, ovvio e ben intrecciato nel nostro contesto culturale. La vulnerabilità non è una caratteristica propria di alcuni ragazzi o di alcuni bambini, bensì una qualità comune e generalizzata, tutti a scuola siamo al di fuori del nostro ambiente protetto, siamo alla mercè delle relazioni e per di più ogni giorno siamo esaminati da chiunque. La scuola dev’essere un nido accogliente per le vulnerabilità, deve saper cogliere le piccole sfaccettature di ognuno e saperle inserire in un contesto più collettivo. Una classe non è solo la somma degli alunni, una classe è un mondo a sé, intrisa di relazioni, sensazioni, emozioni e dinamismo e il professore non è altro che un ricercatore innamorato che presta infinite attenzioni ai suoi studenti e li accudisce e li stimola.

D. - La scuola italiana è inclusiva? Un primo livello tratta di immigrazione e dei problemi di carattere sociale e linguistico correlati. Il secondo di coloro che vengono categorizzati come DSA che spesso non trovano il corretto utilizzo dei metodi compensativi e dispensativi...

R. - La scuola italiana è, in linea di massima, molto inclusiva. Nella mia esperienza scolastica ho sempre avuto la fortuna di trovare docenti che avessero una sensibilità enorme su questi temi. Parlando di immigrazione e di problemi di carattere sociale e linguistico correlati, possiamo dire che le nostre scuole abbiano una velocità di integrazione non indifferente. L’unico problema che spesso si palesa all’interno delle classi con un’ampia presenza di alunni con problematiche linguistiche è che non sempre vi è la possibilità di avere mediatori culturali e linguistici che possano catalizzare le relazioni. Se pensiamo al mondo dei DSA e all’utilizzo, da parte dei professori, dei metodi compensativi e dispensativi, allora possiamo dire che in questi anni si è fatta molta strada. Siamo passati dalla novità di questi strumenti ad una lenta regolamentazione di tutte queste opportunità. Ora il passaggio fondamentale da fare è quello di riuscire in ogni scuola e in ogni fascia d’età a normalizzare queste differenze d’apprendimento. L’ultimo passaggio sarebbe proprio quello di non far sentire i ragazzi DSA diversi o inferiori. Far capire, a loro e ai coetanei, che le loro sono solo differenze nell’apprendimento e non deficit.