Base Luna - Il programma Mercury

di Piero Giuseppe Goletto

Il primo passo per riuscire ad andare sulla Luna è costruire una capsula e farla volare nello spazio servendosi di un idoneo lanciatore.

Il primo lanciatore americano si chiamava Redstone ed era un diretto derivato della V2; si trattava di un missile balistico: una capsula che venisse lanciata con il Redstone non sarebbe cioè entrata in orbita.

 

In realtà, il primo obiettivo in ordine di tempo del programma Mercury era far volare una capsula secondo una traiettoria di tipo balistico. Maxime A. Faget, uno dei più importanti progettisti della stagione Apollo, disegnò una capsula pensata proprio per un utilizzo di questo tipo.

 

Occorre una spiegazione. Il volo spaziale può essere di tipo balistico (la traiettoria è quella di un proiettile lanciato da un cannone), suborbitale (il volo raggiunge lo spazio, cioè supera i 100 km di altezza, poi scende), oppure  orbitale (si compie effettivamente almeno un’orbita intorno a un corpo celeste).

 

In quell’epoca (citiamo dal volume Exploring the unknown, della NASA) secondo Maxime A Faget “il veicolo di rientro balistico […] ha minime necessità di disporre di strumenti di guida e controllo e questo non solo fa risparmiare peso, ma riduce i rischi di malfunzionamento. Per ritornare sulla Terra questo veicolo deve effettuare una sola manovra, e cioè avviare il rientro accendendo i retrorazzi. Completata questa manovra che, dal punto di vista della sicurezza, non richiede particolare precisione, il veicolo rientra nell’atmosfera. Il successo nella fase di rientro dipende dalla stabilità e dall’integrità del veicolo. “

 

L’obiettivo del programma Mercury era quello di lanciare un uomo nello spazio e ciò rappresentava semplicemente il primo passo da intraprendere per raggiungere la Luna. Ricordate? Siamo negli anni ’50 e NESSUNO sa se un uomo può sopravvivere, a che condizioni, se può reggere l’impatto al rientro, tenendo conto delle grandi accelerazioni in gioco.

 

Uomini allenati per sopportare grandi accelerazioni ve ne sono: i piloti militari di aerei. Queste persone presentano un interessante profilo professionale. Torniamo su Exploring the Unknown:

“L’esperienza di piloti militari conferisce loro abilità che la NASA sta cercando. I piloti militari sono abituati a far volare aerei dalle elevate prestazioni, individuare problemi, diagnosticare le cause, comunicare la loro analisi ai tecnici in modo chiaro. Sono abituati a ricevere ordini: rappresentano un gruppo di piloti altamente motivati, qualificati dal punto di vista professionale e altamente disciplinati.” Insomma: grandi professionisti e, cosa non da poco, un tipo di persone con cui il personale della NASA (che prima del 1958 si occupava solo di aeronautica) era abituata ad avere rapporti.

 

Per farla breve, vennero selezionati 7 piloti: Walter M. Schirra, Jr., Donald K. "Deke" Slayton, John H. Glenn, Jr., and M. Scott Carpenter; back row, Alan B. Shepard, Jr., Virgil I. "Gus" Grissom, and L. Gordon Cooper, Jr.

 

Gli astronauti infusero umanità in uno dei più grandi sforzi tecnologici della storia e nasce con loro il mito dell’astronauta virtuoso, concreto, competente e professionale. Nulla in loro suggeriva l’idea di un atteggiamento aristocratico. Si trattava di persone che avevano conseguito risultati eccellenti nello studio, avevano servito la loro nazione in tempo di guerra e in tempo di pace, si erano sposati, lavoravano e avevano raggiunto la posizione di astronauta sulla base di una selezione dura e spossante.

 

Certo, la figura dell’astronauta assumeva caratteri mitologici perché rendeva intelligibile un contesto, quello del volo spaziale, che altrimenti sarebbe stato lontanissimo dall’uomo comune e la NASA fu molto attenta nell’enfatizzare gli aspetti che rendevano un John Glenn simile a un John Smith.

 

Gli astronauti non erano solo dei meri collaudatori ma erano partecipi del processo di progettazione e di costruzione: John Glenn collaborava alla progettazione degli strumenti di bordo, Wally Schirra lavorava alla valutazione delle tute spaziali, Deke Slayton cooperava con gli ingegneri per l’integrazione capsula-vettore e così via.

 

A supervisionare il tutto vi erano Max Faget per la NASA e John Yardley per la McDonnel.

 

Vennero individuati due vettori: un vettore Redstone derivato direttamente dalla V2 e il vettore Atlas (la quinta versione viene correntemente utilizzata per il lancio di satelliti e sonde spaziali).

 

Il vettore Atlas dell’epoca dovette essere modificato pesantemente per diventare adatto al lancio di esseri umani. Vennero messi scudi protettivi in fibra di vetro attorno ai serbatoi, fu potenziata la telemetria di bordo per diagnosticare in anticipo eventuali problemi – e in anticipo significa prima del lancio.

 

I primi test della Mercury vengono effettuati nel 1960 e non sempre sono coronati da successo. Ogni collaudo è anzitutto occasione per revisionare i diversi sistemi di bordo. La capsula è alta 3,3 m. e c’è a malapena lo spazio per l’astronauta.

 

Si giunge così al primo volo di un essere umano a bordo di una capsula spaziale, effettuato da Alan Shepard il 5 Maggio 1961. La capsula si chiamava Freedom 7 e superò la velocità di 8.200 km/h raggiungendo un’altezza di 187 km. Il volo durò poco meno di 15 minuti e mezzo.

 

Il successo della missione Freedom 7 fece di Alan Shepard un eroe nazionale ma soprattutto conferì un’immagine positiva della NASA.

 

La successiva missione Liberty Bell 7 sprofondò dopo l'atterraggio in mare mentre l'astronauta Virgil Grissom riuscì a salvarsi nuotando.

 

La prima missione orbitale fu appannaggio di John H Glenn e avvenne il 20 febbraio 1962. Dopo un’ascesa di 10 minuti la capsula era in orbita. Compì tre orbite, su 7 previste, raggiungendo una velocità massima di 28.200 km/h e un’accelerazione di 7,7 g.

 

Alla seconda orbita un indicatore segnalava che lo scudo termico era mal posizionato. Non potendo sapere se questa segnalazione era vera, il centro di controllo decise di sfruttare più a lungo i retrorazzi in modo da rallentarla all’ingresso dell’atmosfera. In fase di rientro la capsula dondolava notevolmente e il paracadute anticipò l’apertura. John Glenn uscì dalla capsula sfinito e assetato.

 

Tra i voli di successo del programma Mercury vogliamo ricordare quello di Scott Carpenter, di Wally Schirra (sei orbite) e di Gordon Cooper (22 orbite) tutti svolti tra il 1962 e il 1963.

 

Benché il programma Mercury fu fondamentale per iniziare lo sviluppo delle tecnologie e delle metodologie necessarie per arrivare sulla Luna, era largamente incompleto. Occorreva un’intensa attività di ricerca che prese corpo all’interno del programma Gemini.