Intervista a Susanna Egri Ergstein: danza, cultura, storia e sentimenti

di Alessandro Claudio Giordano

Ci sono persone con cui , il semplice colloquiare da spunto a riflessioni ed analisi di momenti importanti. Alcuni giorni orsono ho avuto il piacere di una chiacchierata con Susanna Egri Erbstain, danzatrice, coreografa, maestra di danza, Susanna Egri è stata ed è tuttora una delle personalità più di rilievo nel mondo del balletto italiano. Una carriera lunga costruita su molti successi  ma dall’altra esperienze esistenziali nel periodo bellico che la segnarono per sempre. Susanna è una delle figlie di Erno Egri Erbstein, allenatore del leggendario Grande Torino, morto il 4 maggio 1949 nella Tragedia di Superga. Le sue parole hanno avuto l’effetto di istantanee su un mondo che deve essere bagaglio per la nostra memoria. Degli scatti che devono farci riflettere sulla nostra quotidianità con profondo rispetto per un passato a volte tragico ma condiviso.

Lei è nata a Budapest in Ungheria. Un paese importante per la danza. Quanto questa caratteristica l’ha condizionata positivamente?

La danza ha sempre fatto parte della mia vita. Per un aspetto familiare, mia mamma era maestra di danza. E poi per un aspetto professionale con lo studio professionale della danza è nato in Ungheria durante la guerra. Quindi facciamo questa distinzione la danza come attività che fa parte della vita e  in senso professionale perché una volta entrata alla scuola di danza del Teatro dell'Opera di Budapest è diventato uno studio teso a alla vita professionale vissuto come scopo della vita.

 

A quali sue produzioni è rimasta più legata?

Nel periodo sperimentale della Rai, io ero già quando ancora nessuno aveva l'apparecchio in casa, c'erano soltanto le redazioni dei due principali giornali che erano Stampa e Gazzetta del Popolo che dalle loro vetrine di via Roma proponevano le prime trasmissioni sperimentali. La gente si assiepava tutto intorno e guardava stupefatta quel marchingegno. E tutti i pomeriggi da quelle televisioni venivano proposti degli spettacoli solistici, cioè assoli da me coreografati e tutti diversi. Ed io danzavo tutti i giorni, così ne sono stata subito coinvolta. La danza era materia eccellente per far vedere quello che è il senso principale della televisione cioè il movimento che è la velocità che è ci parla per immagini. La televisione come lei sa è nata a Torino quindi quello è stato il primo lavoro originale televisivo realizzato a Torino. La televisione oltre che a Torino si sarebbe vista anche a Milano in occasione di della fiera di Milano. Questo venne poi richiesto da compagnie straniere ed ebbe una grandissima risonanza anche all'estero, al punto che mi scrissero mi hanno scritto molte riviste specializzate di danza con recensioni apparse a New York e a Londra. Il Foyer de danse è stato il mio spettacolo a cui sono più legata. Venne richiesto dalla compagnia nazionale olandese che lo inserì nel suo repertorio. Così ho dovuto fare una trasposizione perché era nato per la televisione, quindi secondo quello che si riteneva un linguaggio televisivo. Generalmente accade il contrario ed i balletti creati per la scena vengono trasposti in televisione qui invece un balletto nato per la televisione ebbe una trasposizione in scena e così ha avuto centinaia di repliche (in Olanda sono state quattrocento le repliche in due anni) un  primato non eguagliato da nessun balletto. Poi ci sono state tante altre esperienze artistiche a cui sono rimasta molto legata, la Cavalleria Rusticana ad esempio. L’opera lirica era qualcosa di gradito e di conosciuto da un largo pubblico e trasponendo queste storie ai giorni nostri e con musiche jazz la cosa diventava attuale contemporanea. Nei miei lavori c’è sempre stato un fil rouge che legava  tutto questo alla condizione femminile in diverse situazioni e in diverse epoche. Dico questo per sottolineare una mia tendenza che si è fatta sentire in tanti miei balletti e che qui era posta davanti a un pubblico differenziato come quello della televisione di allora, ma che mi ha fatto capire come muovermi.

La danza oggi può essere diciamo compresa o resa più familiare della tv potrebbe essere un buon veicolo per aiutare la danza ?

La tv è sempre stata un ottimo veicolo per la danza perché porta le stesse caratteristiche fondamentali cioè la concisione, la velocità ed il parlare per immagini. Non ha bisogno della parola per farsi capire. Oggi c’è ancora una certa reticenza per ciò che riguarda la danza che come dicevo all'inizio non è una delle attività artistiche in prima linea in Italia. Da sempre si presenta la parte più esteriore di ciò che può essere la danza cioè il l'entertainment puro senza incidere veramente a fondo su cosa la danza invece può fare e sta facendo in con altri mezzi di comunicazione.

 

Suo padre ha lasciato il ricordo di un uomo che riscuoteva fiducia e stima dentro e fuori i campi da calcio.

Mio padre era un uomo straordinario. Per usare soltanto un aggettivo era un illuminato, un uomo di grande spiritualità: era generoso e coraggioso. Era un uomo che anteponeva sempre il benessere degli altri al proprio, ma poi una persona molto semplice. Lui si è trovato nel crocevia delle più terribili tragedie che hanno afflitto il ventesimo secolo ed è riuscito sempre ad emergere dalle più difficili prove con il suo equilibrio. Con la sua capacità umana e morale ha  sempre trovato una via d'uscita. Le leggi razziali emanate sul finire del ’38 cambiarono drammaticamente tutto.  Io ero stata educata su principi morali non confessionali e comunque ero cattolica. Mio padre era ebreo ma in casa è sempre prevalsa una educazione, un senso di responsabilità e di giustizia non legato alla religione. Nel ’39 stavamo lasciando l’Italia diretti a Rotterdam dove mio padre aveva un contratto di scambio con un allenatore del Rotterdam ungherese anche lui. Arrivati al confine,  le autorità di frontiera olandesi annullarono il visto di mio padre. questo ci  impedì di andare a prendere quel posto su cui avevamo già anche casa. E questo fu uno dei momenti più tragici per me perché ero una ragazzina di tredici anni e mi trovai cacciata dal paese dove ero cresciuta fino ad allora e senza più  un avvenire in qualche modo tracciabile. Ero abbattuta e mio padre dopo averci momentaneamente sistemato in casa di parenti perché non avevamo più né casa né lavoro né niente, da Torino dove era tornato mi scrisse una lettera meravigliosa che comincia così “Figlia mia carissima, io ti scrivo in italiano, perché voglio che tu non dimentichi di aver avuto un’educazione italiana, latina, toscana. Non puoi immaginare quale tormento e preoccupazione sia per me vederti costretta a cessare i tuoi studi, nei quali hai riportato tanti onori. Se tu in tutte queste dolorose vicende e contro qualsiasi avversità rimani con la testa alta, forte di animo e di spirito, se il tuo sguardo non si stacca dall’ideale, se la tua volontà non cede dinanzi agli ostacoli, se i tuoi desideri rimangono sempre cristallini, non attratti dal lusso, dai divertimenti, dal facile vivere, tu sarai quella che io sogno tu debba divenire: un essere superiore, un poeta, una scrittrice, una scienziata…”Questa lettera dimostra la grandezza spirituale e la capacità educativo psicologica di un padre che deve in qualche modo sorreggere questa figlioletta che ancora non ha gli strumenti per fronteggiare situazioni così drammatiche perché non cada nell'abbattimento totale. Molti presidi mi hanno chiesto il permesso di poterla inserire proprio nell'agenda della scuola per leggerla ai ragazzi che frequentano le scuole medie per dare loro uno spunto di riflessione. Io sono stata anche responsabile della sua salvezza quando a Budapest, io crocerossina, riuscì a portarlo in salvo nella casa di un diplomatico svedese, Raul Wallenberg, che si era votato al soccorso di coloro che aveva problemi con i nazisti. E quella volta gli salvai la vita. .  In quegli anni il calcio danubiano  faceva scuola, così mio padre venne in Italia con un diploma dell’istituto superiore di educazione fisica e la specializzazione in calcio. Lui  aveva fatto tutto lo studio necessario per avere completezza della conoscenza del calcio non soltanto come tattica o come manovra oppure come calciare il pallone. In lui prevaleva una parte di carattere psicologico che gli faceva preferire il  contatto umano con i giocatori, non più soltanto semplici pedine. Quando Ferruccio Novo lo scelse per costruire il Torino, papà arrivava dall’esperienza alla Lucchese che in tre anni era passata dalla serie C alla A. Con la dirigenza del Torino rimase in stretto contatto anche durante il periodo in cui dovette lasciare l'Italia. Quando rientrò a Torino aveva pronta la squadra che avrebbe portato alla leggenda, frutto di un lavoro comune con la dirigenza dell’epoca.

 

Cosa ricorda di quel 4 maggio 1949? E di una bambolina che suo papà le aveva comprato a Lisbona ritrovata intatta nella valigia tra le macerie dell’aereo?

Con mia madre accompagnammo mio papà a Milano il 30 aprile. Quella sarebbe stata l’ultima partita che Torino avrebbe giocato in Italia. La sera cenammo tutti insieme con Mazzola con cui eravamo molto amici. Il giorno successiva la squadra partiva per Lisbona. Sarebbe tornata a Torino il 4. Una trasferta lunga. Abitualmente mio padre si muoveva con una venti quattro ore, In quell’occasione però aveva bisogno di un bagaglio più grande, così mi chiese la valigia. Ricordo che io gli ricordai “ …poi però me la restituisci”. Ho rivisto quella valigia a Superga tra le macerie. Era intatta, non era danneggiata. Al suo interno una bambolina, un regalo per me da parte di mio papà. Certamente me l’avrebbe data al suo rientro. Quando tornava dai suoi viaggi aveva sempre una bambolina comprata nel paese visitato. Quel giorno la bambolina da Lisbona, un’altra volta dalla Spagna o da altre città. Da quel momento non me ne sono mai separata. Mi ha sempre accompagnata in tutti i miei spettacoli o rappresentazioni che ho fatto.

 

 

Suo papà è stato l’antesignano dell’allenatore moderno. Gli sono stati tributati grandi meriti un po' in tutto il mondo. A Torino invece?

Purtroppo non gli è stato tributato a Torino tutto l'omaggio che gli era dovuto. Lui era un uomo schivo. Non si è mai messo in primo piano. Era solito ripetere “…non è necessario basta essere non occorre esibire. Era una persona di una molto discreta, adorata da tutti i ragazzi. Una squadra come il grande Torino non c'è mai più stata io proprio perché quella era una squadra era la somma di tante eccellenze come erano i singoli giocatori e lui diceva sempre “…tutti danno l'apporto delle loro capacità della loro intelligenza e della loro abnegazione”.  Un gruppo per diventare squadra ha bisogno di qualcuno che lo motivi ne capisca le caratteristiche. Quel Torino rappresentava il riscatto di un intero paese. Da quest’anno mio padre finalmente è entrato nella cosiddetta Hall of Fame per scelta unanime della Federazione Italiana Gioco Calcio. E’ un atto doveroso semmai stupisce che  abbiano atteso settantatre anni ma insomma meglio tardi che mai. Il Torino calcio non ha ancora fatto niente di simile nei confronti di mio padre e questo è un peccato. E’ inaccettabile per tanti motivi e si pensi che in tanti altre squadre e altre città dove mio padre ha lavorato in maniera meno ponderosa e poderosa come Torino per esempio a Lucca hanno titolato a lui una piazza, così come a Nocera Inferiore dove lui è stato allenatore ancora giovanissimo, anche in Ungheria ed in Inghilterra ha avuto grandi riconoscimenti. La ristrutturazione del Filadelfia con l’installazione di sei pennoni era di buon auspicio e sapendo ci fossero dodici posti contavo che uno di questi spettasse a papà invece nulla. Mi è stato detto che avrebbero affrontato il tema ad oggi però nulla.